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Portale storico della Camera dei deputati

Presidenti

Adriano Mari

X Legislatura del Regno d'Italia

Tornata del 26 novembre 1868

Presidente. (Vivi segni di attenzione) Onorevoli colleghi. Vi è piaciuto eleggermi anco una volta a presidente di questa Assemblea. Abbiatene i miei più sinceri ringraziamenti. Siate pur certi che solo un attestato così splendido della vostra benevolenza poteva vincere la naturale ritrosia ch'io sento nei pubblici uffici e quel desiderio vivissimo che ho sempre avuto di non lasciare le tranquille e modeste abitudini della mia vita. Non stimo necessario promettervi di essere imparziale con tutti nell'esercizio dell'alto ufficio che mi avete affidato. Questa nuova testimonianza di fiducia mi addimostra che già ne siete sicuri. Non salgono fino a questo Seggio le passioni di parte; ma da questo Seggio vogliono essere moderate e dirette al maggior bene della nazione, di cui siamo i legittimi rappresentanti. Ogni cosa ha il suo tempo. Assicurata la indipendenza del regno, non isfuggì agli animi vostri che faceva d'uopo provvedere al pubblico erario e alle riforme dei pubblici servizi. L'opera, che nel decorso periodo della Sessione fu condotta sì innanzi, ora deve essere compiuta. Il senno e l'abnegazione di cui deste solenni prove negli ultimi tempi, adoperandovi a restaurare le non prospere condizioni delle nostre finanze, non verranno meno ora che si tratta di provvedere al riordinamento amministrativo. Le condizioni politiche d'Europa ci sono propizie. Sembra che certe nubi si siano dileguate, e che la rivoluzione spagnuola abbia distolto gli animi dal pensiero e dal timore di una guerra europea. Vi sarà più di uno Stato che ci desideri amici ed alleati; niuno che pensi ad offenderci. Tutti hanno da pensare, o più o meno, ai casi loro. Dedichiamoci adunque tranquilli allo studio delle riforme amministrative, che, da tanto tempo promesse sono oggimai diventate, più che un esperimento da tentare, un debito di onore da compiere. (Benissimo!) Certo nell'accingersi a così ardua impresa non si può non deplorare la perdita di un collega egregio, che avrebbe potuto fornire alle discussioni che or si preparano il potente soccorso della sua mente, della sua vasta erudizione e della sua eloquente parola. Avete già compreso com'io accenni all'onorevole Filippo Cordova, che mancò ai vivi il 16 settembre, durante la proroga della Sessione. Lamentarne oggi la morte, sentirne sempre più amaro cordoglio, pensando all'opera cui la Camera si prepara, è tesserne il migliore elogio, è un porre in evidenza i rari meriti che erano in lui e che tutti potemmo pregiare. Dell'affetto che il Cordova ebbe all'Italia ed alla libertà non è mestieri ch'io parli. Fu vivo, costante, provato coi dolori di lungo esilio, con gli atti di una vita tutta spesa a pro di questa patria comune. Dell'ingegno straordinario che gl'impartì natura, della dottrina che seppe con uno studio indefesso acquistare, fanno fede amplissima gli scritti di lui, i discorsi che pronunziò nell'Assemblea siciliana ed in questa Camera; della sua meravigliosa eloquenza, noi, cui toccò di averlo a collega, fummo invidiati testimoni. Mi sia lecito il dirlo senza offesa di alcuno: era il più vigoroso atleta nelle lotte parlamentari. Ogni partito sarebbe stato lieto di poterlo annoverare tra i suoi. Tanto era il prestigio che esercitava sugli animi nostri, che ogni discorso da lui pronunziato era un'orazione; ogni sua orazione un avvenimento. Amici ed avversari pendevano tutti dal suo labbro, spesso impotenti a seguire con la mente quel turbinoso avvicendarsi di idee e di fatti che la sua irrompente parola, più ratta del pensiero, esponeva; sempre affascinati nell'udirlo, sempre desiderosi di udirlo di nuovo. (Bravo! Bene!) Il barone Filippo Cordova nacque in Aidone nel 1810. Colse nel fòro di Caltanissetta i primi allori; e, benché giovane di anni, ebbe fama di valente giureconsulto. Si rivelò uomo di Stato nell'Assemblea siciliana del 1848. Fu ministro delle finanze di quel Governo. Poi, conosciuta la sua potenza nella Camera italiana, fu due volte ministro di agricoltura e commercio. E, quando la morte anzitempo lo colse, ei sedeva nel Consiglio di Stato, dove lasciò, come in quest'Aula, con la memoria degl'importanti servigi che aveva resi, grandissimo desiderio di sé. Ma, se il possente aiuto del Cordova ci è venuto meno, ci valga l'esempio della sua indefessa operosità. Più difficile è l'opera che il paese attende da noi, maggiore sarà il merito nostro nel compierla. Restaurate le finanze, riformate le pubbliche amministrazioni, non solo si rialzerà il credito dello Stato, si riapriranno le fonti della pubblica prosperità, ma ancora le condizioni politiche del regno si faranno migliori, e più agevolmente e più presto si compiranno i nostri destini. Tra un Governo forte e ordinato, che tranquillamente procede per le vie della libertà e del progresso, onorato dalle simpatie delle genti, ed un Governo pauroso, che non sa sostenersi se non col presidio di armi straniere, col terrore e col sangue, il giudizio del mondo civile non può a lungo esitare. (Vivi applausi)