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Documenti ed Atti

XVI Legislatura della repubblica italiana

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/00065 presentata da BERNARDINI RITA (PARTITO DEMOCRATICO) in data 20080429

Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-00065 presentata da RITA BERNARDINI martedi' 29 aprile 2008 nella seduta n.001 BERNARDINI, MAURIZIO TURCO, BELTRANDI, FARINA COSCIONI, MECACCI e ZAMPARUTTI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: sono prossimi a scadere i decreti di applicazione del regime speciale di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario; nei confronti di numerosi detenuti, il durissimo regime speciale e' in atto da molti anni (per taluno dall'estate 1992, cioe' da ormai quattordici anni); nonostante la riforma del 2002, il regime speciale e' pur sempre - nei confronti del singolo detenuto - una forma di trattamento derogatoria, temporanea e di carattere straordinario (la norma e' infatti rubricata «Situazioni di emergenza»); i decreti applicativi (o di «rinnovo») emessi dal 1992 ad oggi, tutti praticamente uguali tra loro ad onta del principio della personalizzazione del trattamento detentivo e della pena, a giudizio dell'interrogante, risultano ispirati da una interpretazione assai discutibile della normativa in materia, per la quale - a proposito dei soggetti legati, al momento dell'arresto, ad associazioni criminali di stampo mafioso - sussisterebbe una «presunzione di persistenza dei collegamenti (del detenuto) con il gruppo criminale» che potrebbe essere superata soltanto dallo scioglimento del gruppo criminale ovvero dalla sopravvenuta collaborazione del detenuto con la giustizia; in tal modo si e' creata, per via d'interpretazione in malam partem e nella prassi, una norma che e' invece inesistente a livello normativo, per la quale il regime detentivo de quo sarebbe automaticamente (e necessariamente) applicabile a tutti gli imputati e/o condannati per associazione di tipo mafioso che non si siano determinati alla collaborazione; al contrario, secondo l'interrogante, non pare ammissibile sostenere che la «persistenza dei collegamenti» con l'associazione criminale di (originaria) appartenenza debba «presumersi» (nonostante anni ed anni di sottoposizione al particolare e restrittivo regime detentivo), mentre e' piu' aderente ai principi costituzionali ritenere che l'eventuale persistenza di collegamenti «criminali» del detenuto debba affermarsi sulla scorta di positivi elementi e concrete circostanze; in altri termini, da una parte sta la concezione del «41-bis» come regime non piu' eccezionale ma ordinario (anzi: perpetuo, almeno per certe categorie di detenuti); dall'altra parte quella (piu' adeguata gia' alla rubrica della norma, recante «Situazioni di emergenza») di istituto eccezionale da applicarsi rigorosamente «quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica» (peraltro, la prima impostazione presuppone che tali «gravi motivi» sussistano ininterrottamente, nel nostro Paese, da ormai quasi quattordici anni; da quando, cioe', l'articolo 41-bis ord. penit. e' stato introdotto ed immediatamente applicato); la nuova formulazione (intervenuta con la legge n. 279 del 2002) della norma citata ha introdotto un fondamentale ma trascurato passaggio, per il quale la sospensione del normale trattamento penitenziario e' possibile (sempre quando ricorrano i gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica) «nei confronti di detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1, dell'articolo 4-bis, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale terroristica o eversiva», di tal che tali elementi devono «esserci» (e cioe' risultare attualmente ed in positivo) e non possono in alcun modo essere presunti; la diversa opzione interpretativa sarebbe invece possibile a fronte di una disposizione di legge che consentisse o imponesse il particolare regime «...a meno che non vi siano elementi tali da far escludere la sussistenza di collegamenti...», anche perche' risulta addirittura ovvio come una cosa sia richiedere, al fine di legittimare l'adozione di un certo provvedimento, che «vi siano» elementi indicativi di attuali collegamenti del destinatario col mondo del crimine (ed allora occorre che tali elementi siano individuati e descritti): mentre tutt'altra e ben diversa cosa e' che - al contrario - esistano elementi tali da far escludere qualsiasi possibilita' di collegamenti di quella natura (le due differenti situazioni determinano una differente distribuzione dell'onere della prova dell'esistenza, ovvero dell'inesistenza, dei collegamenti in questione); la predetta sostanziale differenza e' stata tenuta ben presente dal legislatore allorche' ha «messo mano» all'aggiustamento dell'ordinamento penitenziario come d'altronde risulta, senza andare troppo lontano, proprio dal dato testuale dell'articolo 4-bis ord. penit., cosi' come deriva dalle modifiche introdotte dalla stessa legge n. 279 del 2002: «I benefici suddetti possono essere concessi ai detenuti ed agli internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del presente comma purche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata...»; la prospettiva per la quale il restrittivo regime deve fondarsi sulla positiva emergenza di persistenti collegamenti del detenuto con l'associazione criminale ha gia' avuto, d'altra parte, significativo e ripetuto avallo in sede di verifica giurisdizionale dei decreti ministeriali: «nelle ipotesi in cui, come quella di specie, sia trascorso un cosi' rilevante periodo di tempo dalla commissione dei delitti ed il soggetto sia stato ristretto ininterrottamente nel medesimo regime restrittivo, l'ulteriore proroga deve essere supportata da circostanze recenti o fatti concreti da cui possa desumersi il perdurare del vincolo associativo e della posizione di preminenza un tempo rivestita dal soggetto. Ne' tale necessita' puo' ritenersi soddisfatta dal generico richiamo a «recenti indagini», quando si ometta di indicare la natura e l'entita' degli indizi che si assumono sopravvenuti. - Tale interpretazione della norma, che appare l'unica costituzionalmente corretta peraltro conforme alla nota giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze 349/93, 351/96 376/97), e' stata ora recepita dal testo novellato dell'articolo 41-bis, a seguito della modifica intervenuta con la legge n. 279/02, che ancora attribuisce la facolta' di sospendere in tutto o in parte le normali regole del trattamento penitenziario e rieducativo, alla presenza di «elementi tali da far desumere la sussistenza di collegamenti» con l'organizzazione criminale di appartenenza» (Tribunale di sorveglianza di Roma, ord. n. 3390/2003, Emmanuello A.; negli stessi termini, Tribunale di sorveglianza di Roma, ord. 2269/2003, Barreca S.; Tribunale di sorveglianza di Perugia, ord. n. 977/2003, Tagliavia F.; Tribunale di sorveglianza di Perugia, ord. n. 1280/2003, Barreca G.); secondo l'interrogante nella impostazione contestata si confondono i piani della permanenza del reato associativo (che pero' - e come noto - cessa con la sentenza di primo grado) e quello - ben diverso - della sussistenza attuale di collegamenti con l'associazione di provenienza, mentre (va ribadito con fermezza) e' la seconda condizione, e non gia' la prima, a legittimare il regime carcerario speciale; al contrario, i decreti applicativi sono stati sino ad oggi ispirati alla pretesa «massima d'esperienza» per rimane tale fino a prova (diabolica) del contrario: a quale il mafioso - o il camorrista «La regola principale della militanza nel gruppo mafioso... e' data dalla assoluta fedelta' all'associazione, alla quale si rimane legati anche nello stato di detenzione, e dalla quale, in quanto appartenenti, si ottengono mensilmente le risorse per il mantenimento della famiglia e per sostenere le spese legali e processuali»; ebbene, nel ribadire che non spetta al Ministro stabilire quando cessi la permanenza del reato, ma soltanto se sussistono collegamenti del (mafioso o ex) con l'associazione di appartenenza, deve rilevarsi la genericita' di tali assunti (difatti ripetuti indistintamente in tutti i decreti applicativi); a quanto risulta all'interrogante, nei decreti applicativi si legge che «il comportamento corretto (del detenuto) nel corso della detenzione, che e' regola per gli appartenenti alle organizzazioni di tipo mafioso, in nessun caso puo' essere interpretato come segno univoco della resipiscenza e cessazione di ogni pericolosita' sociale», il che svela l'automaticita' dell'applicazione dell'istituto: se si da' atto del corretto comportamento intramurario (e quindi - deve ritenersi - dell'insussistenza di tentativi di indebita comunicazione con l'esterno), l'asserita persistenza di contatti con l'associazione criminale non puo' che trovare fondamento in una presunzione assoluta ed insuperabile (se non, come s'e' detto, con la collaborazione); la rituale elencazione delle «pendenze» (cioe' dei procedimenti e processi in corso) del detenuto deve essere letta alla luce del presupposto che spesso (se non sempre) si tratta di processi per fatti assai datati, rivelatori quindi di cio' che era, e non gia' di cio' che attualmente e' il soggetto in questione; diversamente, dovrebbe ammettersi che la detenzione - ad onta dei princi'pi costituzionali - e' del tutto inutile ai fini della riabilitazione personale; i detenuti sottoposti al «41-bis» hanno rapporti assai rarefatti (non gia' con l'ambiente di provenienza, ma) addirittura con la loro stessa famiglia, essendo ristretti in localita' lontane dai luoghi d'origine, ed essendo decisamente «disincentivante» l'unico colloquio mensile, della durata di un'ora, attraverso uno spesso vetro divisorio; pur tuttavia cio' non e' tenuto mai in considerazione nella «presunzione di mantenimento di contatti con l'associazione criminale di appartenenza», trattandosi invece della rappresentazione piu' eloquente non soltanto della mancanza di contatti «criminali», ma addirittura di un progressivo isolamento personale dei soggetti, dalle preoccupanti conseguenze sul piano dell'equilibrio personale e della stessa salute mentale; negli anni scorsi centinaia di detenuti sottoposti al regime speciale (non vi e' mai stato modo di stabilirne il numero esatto) chiesero, tanto formalmente quanto inutilmente, che i colloqui fossero videoregistrati per verificarne il contenuto verbale e «mimico», con rinuncia scritta ad ogni profilo di privacy (anche da parte del parente ammesso al colloquio, che firmava una «liberatoria» in tal senso), se a cio' aggiungiamo che la posta di tali detenuti e' gia' interamente sottoposta a censura, la misura avrebbe consentito di azzerare qualsiasi rischio di indebite comunicazioni, consentendo colloqui in numero e con modalita' ordinarie; ma forse proprio per questo, la richiesta non ha mai avuto seguito; la stessa sussistenza dei presupposti «oggettivi» per la sospensione dell'ordinario regime carcerario (la ricorrenza di «gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica») e' stata sinora affermata e ritenuta nei seguenti termini: «Per cio' che in particolare riguarda "cosa nostra" e le altre associazioni criminali similari, la maturate esperienze consentono di affermare che l'operativita' e gli interessi dell'organizzazione frequentemente prescindono dalla manifesta commissione di reati. Spesso pertanto il "silenzio" e' frutto di una strategia per determinare cali di tensione nell'attivita' di contrasto istituzionale e promuovere il rilancio delle attivita' criminali e di controllo sul territorio»; con il che, secondo l'interrogante, il Ministro, esplicitamente, ha dato atto della insussistenza, allo stato, di quella particolare situazione «esterna» che legittima l'inasprimento del regime detentivo, ma ha mostrato di ritenere che il «41-bis» possa impedire il «rilancio» delle attivita' criminali; la norma non autorizza affatto tale «applicazione in via preventiva» dell'(un tempo, ma ormai non piu') eccezionale regime, che continua ad essere legato ad obiettivi fattori, riassunti nella formula «gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica»; previsione indiscutibilmente «aperta», ma che certo non consente di giungere al paradosso per il quale l'assenza di manifestazioni criminali equivarrebbe alla drammatica situazione che, a partire dalla primavera/estate del 1992 (basti rammentare la tragica escalation omicidio Lima, strage di Capaci, strage di Via D'Amelio, attentati a Roma e Firenze) provoco' l'introduzione del regime detentivo; a giudizio dell'interrogante, cio' e' la riprova che il regime differenziato e' divenuto, nella prospettiva ministeriale, una normale modalita' di detenzione e di espiazione della pena per certe categorie di detenuti, indipendentemente dalla reale sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive che ne autorizzano l'applicazione; in conclusione, appare chiaro che l'istituto della sospensione delle normali regole trattamentali all'interno dell'istituto di pena di cui all'articolo 41-bis ord. penit., per mantenersi nei limiti imposti dalla Carta costituzionale, deve rispondere a specifiche e determinate finalita' indicate dalla legge, quali la salvaguardia di esigenze di ordine e di sicurezza, e deve essere rivolto ad impedire i collegamenti dello specifico soggetto con l'associazione criminale, terroristica o eversiva d'appartenenza, mentre, allo stato, secondo l'interrogante, e' prevalsa la concezione di un sistema duramente punitivo, inadeguato ai fini che ufficialmente si propone, ed invece mirante unicamente a provocare la collaborazione del detenuto -: se ritenga necessario ed urgente riportare il sistema ai livelli di legalita' previsti dalla riforma legislativa intervenuta con la legge n. 279 del 2002, partendo almeno dalla immediata limitazione dei decreti applicativi o di proroga ai casi in cui sia concretamente emersa l'esistenza (o il tentativo) di contatti del detenuto con l'associazione criminale esterna, con il superamento di preconcettuali, indebite ed insuperabili «presunzioni» di segno opposto. (4-00065)

Atto Camera Risposta scritta pubblicata lunedi' 1 dicembre 2008 nell'allegato B della seduta n. 095 All'Interrogazione 4-00065
presentata da RITA BERNARDINI Risposta. - In risposta all'interrogazione in esame indicata, si fa presente quanto segue. Il regime detentivo speciale previsto dall'articolo 41-bis ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), sin dalla sua istituzione riveste un ruolo centrale tra gli strumenti normativi utilizzabili per il contrasto alla criminalita' organizzata. Introdotto per avere una durata a termine, la sua vigenza e' stata prorogata per periodi successivi sino alla novella introdotta con legge n. 279 del 23 dicembre 2002, che ha ridisegnato l'istituto sancendone, nel contempo, il passaggio a regime. La sua originaria formulazione (articolo 10 della legge n. 663 del 1986, cosiddetta «legge Gozzini») prevedeva che «in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro di grazia e giustizia ha facolta' di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessita' di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto». Pochi giorni dopo la strage di Capaci, l'articolo 19 del decreto-legge n. 306 del 1992 introdusse un comma 2 al preesistente articolo 41-bis: «quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell'interno, il ministro di grazia e giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell'articolo 4-bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». La mancata tipizzazione di condotte o situazioni legittimanti l'adozione di una cosi' grave misura rendeva difficile il compito di individuare con esattezza tanto il fine della norma, che i presupposti applicativi; inoltre, i contenuti della misura venivano affidati ad un organo politico. Parimenti indeterminate erano le regole penitenziarie che potevano porsi «in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza»; il comma 2 dell'articolo 41-bis, infine, non prevedeva alcun rimedio per consentire al detenuto di impugnare la valutazione effettuata dal Ministro di grazia e giustizia. Sul versante giurisprudenziale, con sentenza 28 luglio 1993, n. 349 (confermata dalla successiva sentenza 23 novembre 1993, n. 410), la Corte costituzionale - sia pur fornendo una lettura «costituzionalmente orientata» della norma - ebbe a chiarire che il condannato poteva avvalersi della procedura del reclamo prevista dall'articolo 14-ter legge ordinamento penitenziario, dinanzi al tribunale di sorveglianza. In quella sede, la Corte ebbe anche modo di evidenziare come l'istituto fosse conforme ai parametri costituzionali, poiche' le restrizioni cui esso dava luogo non incidevano sul grado di privazione della liberta' personale (funzione, questa, esclusivamente propria dell'ordine giudiziario e soggetta ai principi di riserva di legge e di giurisdizione ex articolo 13 comma 2 della Costituzione), ma si limitavano a sospendere le sole regole trattamentali ed istituti che gia' nell'ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferivano al regime di detenzione in senso stretto. La Corte, tuttavia, ebbe a precisare che i provvedimenti ministeriali dovevano essere puntualmente motivati per ciascuno dei detenuti cui essi erano rivolti, dovendo dar conto delle ragioni di un'eventuale deroga al trattamento rispetto alle finalita' rieducative della pena. Con la successiva sentenza 18 ottobre 1996 n. 351, la Corte costituzionale ha poi confermato la possibilita' per i tribunali di sorveglianza di effettuare il sindacato di legittimita' non solo con riferimento alla sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento, ma anche al contenuto di questo, stabilendo che da un lato non potevano essere adottate misure incidenti sulla qualita' della pena o sul grado di liberta' del detenuto e, dall'altro, non potessero essere imposte misure che, per il loro contenuto, non fossero riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza, o fossero palesemente inidonee o incongrue rispetto a tale esigenza posta a base del provvedimento. Successivamente, con la sentenza 26 novembre 1997, n. 376 la Corte costituzionale preciso' che «ogni provvedimento di proroga delle misure doveva recare una autonoma e congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l'ordine e la sicurezza che le misure medesime miravano a prevenire», e che l'istituto poteva essere applicato anche ai semplici «imputati». Nel 2002, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 279 del 2002, il regime carcerario previsto dall'articolo 41-bis ha subito una radicale trasformazione, trasformandosi in un istituto «stabilizzato». A supporto della scelta a favore della stabilizzazione definitiva del regime previsto dall'articolo 41-bis (come testimoniano i lavori parlamentari) stava, innanzitutto, la presa d'atto della sua non contrarieta', in quanto tale, ai principi generali dell'ordinamento, confermata piu' volte dalle pronunce della Corte costituzionale. Inoltre, la sua definitiva introduzione ha sanato l'anomalia data dal fatto che il regime previsto dall'articolo 41-bis, nato come strumento temporaneo cui ricorrere in casi eccezionali, era stato applicato in modo sistematico e continuativo per dieci anni. Alla norma prevista dall'articolo 41-bis e' stato inoltre aggiunto un comma 2-bis, a mente del quale «i provvedimenti emessi ai sensi del comma 2 sono adottati con decreto motivato del Ministro della giustizia sentito l'ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice che procede ed acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione Nazionale Antimafia e gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell'azione di contrasto alla criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, nell'ambito delle rispettive competenze». La norma, inoltre, prendendo spunto dalle sentenze della Consulta, oltre a restringere il campo di applicazione dell'istituto ai soli reati di cui alla prima parte dell'articolo 4-bis della legge ordinamento penitenziario, ha precisato opportunamente che «la sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l'associazione di cui al periodo precedente», ed ha indicato analiticamente (comma 2-quater) le regole di trattamento suscettibili di sospensione. Ai sensi del novellato comma 2-bis, i provvedimenti ministeriali possono avere durata non inferiore ad un anno e non superiore a due, al fine evidente di rendere piu' agevole ed effettivo il controllo giurisdizionale sul provvedimento applicativo. La norma che ai fini che interessano appare di maggiore rilievo concerne la procedimentalizzazione del reclamo. L'articolo 41-bis, comma 2-quinquies prevede che il detenuto, l'internato, o il suo difensore, possano proporre reclamo nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento. Il reclamo e' presentato al tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto al quale il detenuto o l'internato e' stato assegnato e, come gia' affermato in passato, tale competenza territoriale non muta a seguito del trasferimento del detenuto o internato in altro istituto penitenziario. Ai sensi del comma 2-quinquies, la proposizione del reclamo non sospende l'esecuzione del provvedimento. Il successivo comma 2-sexies prevede che il Tribunale decida (termine ordinatorio) entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo in esito a procedura camerale da svolgersi nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice procedura penale. Il controllo giurisdizionale attiene alla «sussistenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento» e alla «congruita' del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di congruita' di cui al comma 2» (comma 2-sexies). Il detenuto o il difensore possono comunque attivare il procedimento di revoca anticipata della misura, anziche' dianzi al tribunale di sorveglianza, direttamente al Ministro della giustizia, avverso il cui diniego potra' presentarsi il reclamo ordinario. La parte del nuovo comma 2-bis secondo cui la misura e' prorogabile «purche' non risulti che la capacita' del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno», e' stata oggetto di censura di incostituzionalita', ma la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 417 del 23 dicembre 2004, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione. In particolare, la Corte ritiene che la norma «non comporta una inversione dell'onere della prova per il detenuto, in quanto rimane intatto l'obbligo di dare congrua motivazione in ordine agli elementi da cui risulti che il pericolo che egli abbia contatti con associazioni criminali o eversive non sia venuto meno», stabilendo il principio secondo cui ogni provvedimento di proroga deve contenere «una autonoma congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l'ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire» e non possano quindi ammettersi «motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualita' le misure disposte». Sulla scorta dei principi elaborati dalla Corte costituzionale, la Suprema Corte di cassazione ha inoltre precisato che indice della sussistenza dell'attualita' dei collegamenti - e dunque di una situazione di pericolo per l'ordine e la sicurezza - e' soprattutto la costante operativita' del clan ed il ruolo apicale del soggetto all'interno dello stesso, a prescindere dalla prova di concreti contatti intervenuti fra il detenuto sottoposto al regime di cui all'articolo 41-bis ordinamento penitenziario e la cosca mafiosa di appartenenza. Da quanto sin qui argomentato, si evince come la «normalizzazione» dell'istituto, se da un lato ha garantito allo stesso stabilita' (avvicinandolo sempre piu' alle misure di prevenzione), dall'altro ha ampliato le possibilita' di controllo giurisdizionale sui provvedimenti applicativi, da cui scaturisce un piu' permeante potere di censura da parte della magistratura di sorveglianza. Proprio per risolvere le difficolta' derivanti dall'interpretazione, spesso non uniforme, dell'articolo 41-bis, con specifico riferimento agli aspetti riguardanti la capacita' di collegamento del soggetto con l'esterno, l'ufficio legislativo del ministero della giustizia ha avuto incarico di predisporre alcune modifiche legislative alla normativa in questione. Sara', comunque, opportuna, un'attenta riflessione sulla materia, tale da coinvolgere tutte le forze politiche, al fine di individuare appropriati interventi riformatori tali da consentire, da un lato, l'assoluta impermeabilita' delle strutture carcerarie e, dall'altro, la migliore e piu' efficace gestione dei soggetti sottoposti al regime detentivo speciale di cui all'articolo 41-bis ordinamento penitenziario. Il Ministro della giustizia: Angelino Alfano.



 
Cronologia
mercoledì 23 aprile
  • Politica, cultura e società

    Emma Marcegaglia è eletta Presidente di Confindustria.



martedì 29 aprile
  • Parlamento e istituzioni

    In Parlamento si svolge la seduta inaugurale della XVI legislatura. Il senatore Renato Schifani (PdL) è eletto Presidente del Senato al primo scrutinio.



    Renato Giuseppe Schifani
mercoledì 30 aprile
  • Parlamento e istituzioni

    Il deputato Gianfranco Fini (PdL) è eletto Presidente della Camera al quarto scrutinio.



    Gianfranco Fini